Mia figlia mi ha fatto una domanda interessante: “Ma il cinque perché è fatto così? Perché i romani scrivevano, invece, il 5 con un il simbolo V?”.
E allora ho dato fondo alle mie più remote conoscenze e reminiscenze ma non ricordavo che frammenti. Non restava che fare una ricerca e tentare di ricostruire l’accaduto per dare una risposta sensata e sufficientemente articolata.
Ed ecco con cosa sono venuto fuori. Tanto per iniziare i numeri arabi non sono farina del sacco arabo ma provengono dall’India con la quale il mondo arabo, nella antichità, già commerciava.
Quindi gli arabi utilizzarono per quasi mille anni il sistema indiano, ovviamente perdendone in parte alcune forme e magari aggiungendone altre ai simboli importati dall’India. Solo nell’813 il califfo al-Ma’mum si prese la briga di incaricare un matematico persiano, Muḥammad ibn Mūsā al-Khwārizmī, di scrivere in lingua araba un trattato di aritmetica per divulgare la numerazione indiana.
Gli arabi, grandi commercianti di beni di lusso come spezie, profumi, essenze e perle, videro subito l’estrema importanza di un sistema utile per i loro traffici e lo diffusero anche nel bacino del Mediterraneo dove loro portavano le loro mercanzie. Fu così che i numeri indiani, modificati dagli arabi vennero adottati prima sulla sponda sud del mar Mediterraneo per poi raggiungere la sponda nord soppiantando il complicato metodo romano.
Infatti con i numeri arabi tutto fu più semplice e rapido; per esempio il numero quattromilatrecentotrentanove (4339) a Roma era scritto con l’utilizzo di ben dodici cifre: MMMMCCCXXXIX, contro le quattro del sistema arabo. Da qui si capisce come fosse ora, di colpo tutto più rapido e semplice soprattutto nell’esecuzione di somme, sottrazioni, moltiplicazioni e divisione, per non parlare di problemi matematici più complessi.
Rivoluzionaria fu inoltre l’introduzione dello zero e della numerazione posizionale, ossia un sistema di numerazione in cui i simboli, usati per scrivere i numeri, assumono valori diversi a seconda della posizione che occupano nella notazione. Infatti ora, con i numeri arabi, il valore delle cifre (unità, decine, centinaia, migliaia) è dato dalla loro posizione e si esprime con un numero molto ridotto e snello di cifre.
E sin qui tutto bene: ma c’era un problema quasi insormontabile. Questo sistema era arabo, quindi non cristiano e quindi infedele, quindi considerato pericoloso. Era visto da molti dotti e soprattutto religiosi con sospetto rappresentando un potenziale pericolo per la Cristianità.
Come in tutte le epoche dove avvengono rivoluzioni gli scettici, i negazionisti i no-numero arabo cominciarono a rumoreggiare e ad obiettare che visto che avevano anche numeri aperti e forme tondeggianti, sarebbero stati facile preda di disonesti e truffatori che li avrebbero potuti trasformare modificando il numero delle merci o peggio direttamente il valore magari degli accordi commerciali. Proprio come il grafene coi no-vax.
I numeri arabi quindi stentarono la loro diffusione fino al 1200, precisamente fino al 1202 anno della stampa di un manuale ad opera del matematico italiano Leonardo Fibonacci che col suo Libro dell’abbaco, giudicato unanimemente il più raffinato saggio di aritmetica dell’intero Medioevo, impose i numeri arabi decretando l’inizio del declino, soprattutto fra i matematici e gli studiosi, ma non nell’uso comune, dei numeri romani. Tra la gente, il popolo continuò ad usare i numeri romani.
Proprio Fibonacci, invece, aveva capito l’importanza dei numeri arabi grazie al padre, un ricco mercante che commerciava proprio con vari colleghi arabi e che portò il figlio Leonardo con sé in vari viaggi in Oriente dove questo, venendo a contatto con importanti maestri musulmani, imparò l’arte del far di conto e l’utilizzo dei numeri arabi.
Occorrerà però aspettare praticamente altri quattrocento anni, il XVI secolo perché lo zero e la numerazione araba diventino popolari al di fuori degli ambienti matematici ed entrino nel comune utilizzo quotidiano.
Ultima curiosità: una spiegazione dei numeri primari. La relazione tra la presenza di uno, due buchi o l’assenza di buchi nella cifra che li rappresenta. Infatti in matematica, un elemento importante nella descrizione di una qualsiasi figura è la sua omotopia: una proprietà che, in parole povere, indica se la figura racchiude dei “buchi” (e se sì, quanti).
Il numero di buchi di una figura è una caratteristica molto importante in matematica, soprattutto nel calcolo integrale. Osservando le cifre da 1 a 9, si può notare facilmente che i simboli 1, 2, 3, 5 e 7 non hanno buchi. E sono proprio i numeri che non hanno divisori propri, cioè sono divisibili solo per 1 e per sé stessi. I simboli con un buco rappresentano invece i numeri che si scompongono nel prodotto di due fattori: 4 = 2 ∙ 2; 6 = 2 ∙ 3; 9 = 3 ∙ 3. Infine, l’unico simbolo ad avere due buchi è quello dell’8, che è anche l’unico numero minore di 10 a scomporsi in tre fattori (2 ∙ 2 ∙ 2). La magia dei numeri è così servita.