La Meloni è insoddisfatta dei suoi risultati sulla immigrazione. L’altra sera la nostra premier, al TG1, nel tirare le somme vittoriose del primo anno di governo, ha, però, “ammesso” di essere non felice su quanto fatto per “fermare” gli immigrati.

La Meloni di oggi sembra essere la brutta copia di quella che era all’opposizione, dapprima sbraitava, si sperticava, rivendicava il “blocco navale” salvo poi accorgersi che non è possibile farlo. Malediva l’incapacità della gestione dei flussi, salvo poi trovarsi il 300% di arrivi in più. Urlava all’invasione ed ora quello che riesce ad inventarsi è una reclusione fino a 18 mesi nei centri di identificazione e rimpatrio, salvo poter pagare circa 5mila euro di cauzione.

Insomma una gestione del fenomeno migratorio caotica, inefficiente, inefficace e soprattutto disumana. Forse sarebbe educativo, invece di definire invasori i migranti, ricordare il flusso incessante che è partito dall’Italia verso altre parti più promettenti del mondo, quando noi eravamo “gli invasori”: poveri, disperati, mal vestiti e poco o per nulla educati. Eravamo così, non per colpa nostra, esattamente come non è colpa di questi disperati la loro condizione, che li rende vulnerabili e disposti a tutto pur di tentare di trovare un “mondo migliore” dove ricominciare una esistenza decorosa.

Invece per questo esecutivo, questi disperati sono numeri, nemici, invasori che metterebbero in pericolo l’italianità e non persone con storie, esperienze, famiglie.

Penso sia utile rileggere questa poesia, scritta nel 1882, più attuale che mai. Che qualcuno inizi così a capire? Certo non gli esponenti di questo esecutivo ed i loro galoppìni, pronti sempre a tutto, pur di accaparrarsi qualche voto e disposti a scannarsi, anche tra di loro, pur di non farsi superare, sempre a destra, l’un l’altro.

Gli emigranti

Cogli occhi spenti, con lo guancie cave, Pallidi, in atto addolorato e grave, Sorreggendo le donne affrante e smorte, Ascendono la nave Come s’ascende il palco de la morte. E ognun sul petto trepido si serra Tutto quel che possiede su la terra. Altri un misero involto, altri un patito Bimbo, che gli s’afferra Al collo, dalle immense acque atterrito. Salgono in lunga fila, umili e muti, E sopra i volti appar bruni e sparuti Umido ancora il desolato affanno Degli estremi saluti Dati ai monti che più non rivedranno.

Salgono, e ognuno la pupilla mesta Sulla ricca e gentil Genova arresta, Intento in atto di stupor profondo, Come sopra una festa Fisserebbe lo sguardo un moribondo. Ammonticchiati là come giumenti Sulla gelida prua morsa dai venti, Migrano a terre inospiti e lontane; Laceri e macilenti, Varcano i mari per cercar del pane. Traditi da un mercante menzognero, Vanno, oggetto di scherno allo straniero, Bestie da soma, dispregiati iloti, Carne da cimitero, Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti. Vanno, ignari di tutto, ove li porta La fame, in terre ove altra gente è morta; Come il pezzente cieco o vagabondo Erra di porta in porta, Essi così vanno di mondo in mondo.

Vanno coi figli come un gran tesoro Celando in petto una moneta d’oro, Frutto segreto d’infiniti stonti, E le donne con loro, Istupidite martiri piangenti. Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora Il suol che li rifiuta amano ancora; L’amano ancora il maledetto suolo Che i figli suoi divora, Dove sudano mille e campa un solo. E li han nel core in quei solenni istanti I bei clivi di allegre acque sonanti, E le chiesette candide, e i pacati Laghi cinti di piante, E i villaggi tranquilli ove son nati! E ognuno forse sprigionando un grido, Se lo potesse, tornerebbe al lido; Tornerebbe a morir sopra i nativi Monti, nel triste nido Dove piangono i suoi vecchi malvivi.

Addio, poveri vecchi! In men d’un anno Rosi dalla miseria e dall’affanno, Forse morrete là senza compianto, E i figli nol sapranno, E andrete ignudi e soli al camposanto. Poveri vecchi, addio! Forse a quest’ora Dai muti clivi che il tramonto indora La man levate i figli a benedire…. Benediteli ancora: Tutti vanno a soffrir, molti a morire. Ecco il naviglio maestoso e lento Salpa, Genova gira, alita il vento. Sul vago lido si distende un velo, E il drappello sgomento Solleva un grido desolato al cielo. Chi al lido che dispar tende le braccia. Chi nell’involto suo china la faccia, Chi versando un’amara onda dagli occhi La sua compagna abbraccia, Chi supplicando Iddio piega i ginocchi.

E il naviglio s’affretta, e il giorno muore, E un suon di pianti e d’urli di dolore Vagamente confuso al suon dell’onda Viene a morir nel core De la folla che guarda da la sponda. Addio, fratelli! Addio, turba dolente! Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente, V’allieti il sole il misero viaggio; Addio, povera gente, Datevi pace e fatevi coraggio. Stringete il nodo dei fraterni affetti. Riparate dal freddo i fanciulletti , Dividetevi i cenci, i soldi, il pane, Sfidate uniti e stretti L’imperversar de le sciagure umane. E Iddio vi faccia rivarcar quei mari, E tornare ai villaggi umili e cari, E ritrovare ancor de le deserte Case sui limitari I vostri vecchi con le braccia aperte.

EDMONDO DE AMICIS

POESIE, MILANO, FRATELLI TREVES, EDITORI, 1882