Bianco assolutamente no, anzi verde, di un colore e calore inaspettatamente primaverili: questo è il Natale 2023, dannatamente simile a quello 2022. Eppure sembra tutto sia normale, pochi ne parlano se non per compiacersi del tepore. Nelle TV di regime le notizie sulla crisi climatica sono bandite, soprattutto per le Feste, non dobbiamo disturbare i manovratori mentre guidano il Paese. Poi, i consumi natalizi vanno salvaguardati a tutti i costi ed allora via alle canzoncine e alle atmosfere tutte sdolcinate dei mercatini dove tutto è in vendita, in primis il buon senso. Comunque nessuno sembra preoccupato, anche se stride con la memoria collettiva, dove la fredda luce di Natale creava atmosfere, oramai, solo nei ricordi.

Il clima di questo Natale prosegue la striscia del resto del 2023: l’anno più caldo mai registrato. E mentre ci si rallegra e si scambiano doni, soprattutto di plastica, tutti i ghiacciai italiani si stanno ritirando in maniera impressionante come fanno sapere al Comitato Glaciologico Italiano assieme a Greepeace, che hanno appena pubblicato un rapporto allarmante.

Archiviato il 2022, questo anno si presenta come il peggiore. Se per i negazionisti climatici, ci sono sempre stati anni in cui il Natale era stato meno rigido, è innegabile che stiamo attraversando una serie di eventi, sempre più ravvicinati e “stranamente” intensi. Nella maggior parte dei centri sciistici invernali si lavora solo grazie ai cannoni sparaneve in funzione oramai a tempo pieno e per tutta la stagione con costi economici ed ambientali elevatissimi. Questi impianti sono energivori e consumano quantità enormi di acqua, 20.000 metri cubi di acqua per innevare un tratto di un chilometri e mezzo. Il WWF ha calcolato che ogni anno vengono impiegati circa 95 milioni di metri cubi d’acqua e 600 gigawattora di energia, per una spesa di 136mila euro per ettaro di pista.

Comunque, nonostante la crisi economica, molti continuano a fare la famigerata settimana bianca, come se nulla fosse cambiato e come se nulla stia evolvendo rovinosamente, ci adattiamo a questo cambiamento che è troppo rapido per non essere notato ma troppo lento per scatenare la salutare paura che ci farebbe correre ai ripari. Mettiamo meno maglioni e più magliette nel guardaroba ed ancora in tantissimi si sperticano per l’auto a pistoni e maledicono quella elettrica, acclamano Lollobrigida e le sue lotte anacronistiche per il maiale, trasformato in prosciutto italiano e maledicono Greta, appellando i ragazzi che la seguono con il nomignolo di gretini. Additano come eco-chic chi fa i salti mortali per montare un tetto fotovoltaico ed inventano fake-news, balle fotoniche, su tutto quello che è green.

Intanto continuiamo a consumare i pianeta ed i suoi abitanti (umano e non umani) mangiandoci risorse minerarie e parti anatomiche di animali cresciuti in maniera indicibile ed altamente inquinante. Ma ovviamente, Lollobrigida docet, la tradizione va rispettata, soprattutto sotto le feste. E’ più facile continuare a fare quel che si è sempre fatto, il cambiamento metterebbe in crisi l’assunto che quel che abbiamo fatto in passato era giusto, certificando che i nostri stili di vita fino ad oggi erano completamente sbagliati, ergo vanno cambiati proprio per salvare la nostra pellaccia.

Certo, se ci svegliassimo tutti, o almeno in una gran parte, da questo torpore collettivo e se agissimo come “soggetto plurale”, la nostra risposta sarebbe risolutiva. Cambiando i nostri stili di vita ci salveremmo, strano ma vero ma l’unione fa la forza: non è poi così difficile da capire ma è scomodo da accettare e cozza con il nostro profondo egoismo. Basti pensare a come si è conclusa la COP 28: un bel nulla di fatto. Abbiamo spostato ancora in avanti l’obiettivo dello “zero emissioni” al 2050, troppo, troppo tardi.

E, per assurdo, chi pagherà maggiormente per le nostre scelte scellerate di non decidere di cambiare, sono coloro che non hanno contribuito al disastro climatico: i piccoli paesi insulari, le popolazioni più povere del pianeta che anche alla COP 28 sono state lasciate letteralmente fuori della porta. Le loro delegazioni avevano chiesto di intervenire prima delle conclusioni a Dubai ma non sono stati fatti nemmeno entrare in sala. E’ ovvio che gli interessi economici ancora guidano chi ha la barra del timone in mano: USA, Emirati Arabi Uniti, Russia. Questi Stati federali sono i maggiori produttori di idrocarburi e sono quelli che da sempre guidano le danze politiche attorno al mondo. Danze che prevedono in dosi diverse: visione capitalistica, regime politico più o meno somigliante ad una democratura, fortissime diseguaglianze sociali, sfruttamento spinto delle risorse, interferenze politiche internazionali e devastazione ambientale.

C’è poi un ultimo dato su cui riflettere: quando si parla di crisi climatica, la profonda ingiustizia che imponiamo ai più deboli. Infatti c’è un assunto, un assioma sulla disparità della condizione sociale: il ricco produce molto più inquinamento del povero ma paga molto meno le conseguenze delle sue azioni. Ha i mezzi per proteggersi dalle conseguenze delle sue stesse azioni, cosa che il povero non può garantirsi. Per questo la questione climatica è una questione anche e soprattutto di giustizia sociale.

La soluzione c’è ed è alla nostra portata. Cambiare in meglio i nostri stili di vita partendo da una dieta plant based, insomma vegetale, la promozione e l’uso dei mezzi pubblici, la limitazione e l’attenzione nei consumi e della loro qualità anche etica. Grazie a queste azioni poste in essere milioni di volte da milioni di persone, certamente non avremo più un bianco Natale ma almeno ce ne garantiremo sempre uno a venire per noi e per le generazioni future.