Cambiare idea, normalmente, è sintomo di capacità di adattamento, dimostra disponibilità a rivedere le proprie posizioni, quando altre appaiono all’orizzonte e si dimostrano migliori. Ma questa maggioranza ha cambiato idea su tutto: tutti i punti del programma elettorale sono stati disattesi, tutte le promesse sono saltate e persino il ponte sullo Stretto, prima inviso a Salvini, ora ha cambiato nome in “Ponte degli Italiani” e Salvini lo osanna annunciando ondivagamente 40, 45, 60, 80, 100, 120 mila posti di lavoro, ma, “posti di lavoro veri”, tiene a precisare, anche se sembrano più numeri buoni per giocarli al lotto che dati scientifici.
Avevano anche proclamato, in campagna elettorale, l’assoluta urgenza di convertire la democrazia parlamentare in un sistema presidenziale. Insomma: elezione diretta del presidente della Repubblica. Era apparso un tema importantissimo, tanto da diventare una bandiera, era diventato un tema identitario. Poi la vittoria, la formazione della compagine governativa e l’insediamento del Governo che, non trovando la quadra su tantissimi aspetti ed anche su di un tema così spinoso, ha trasformato il presidenzialismo in elezione diretta del presidente del consiglio.
Una riforma istituzionale pasticciata, formata in fretta e in furia: tutto sta, pericolosamente, in cinque articoletti. Una riforma creata per polarizzare, per dividere l’opinione pubblica, creando un argomento forte, in vista della campagna elettorale per le europee. Giocare con le riforme, in questa maniera, non ha nemmeno convinto tutta la destra (vedi la forte perplessità, fra gli altri, di Marcello Pera), ma tant’è: l’ordine di scuderia non si discute, anche perché la stessa Giorgia Meloni, che la ha definita “madre di tutte le riforme”, ha accettato la possibilità di modificarlo in Parlamento, consapevole di molti passi critici.
Nonostante tutte le rassicurazioni date preventivamente, si direbbe “excusatio non petita, accusatio manifesta”, questa riforma sposta gli equilibri dei poteri dello Stato, li sfila al Presidente della Repubblica affidandoli al Presidente del Consiglio. Una riscrittura dell’articolo 92 della Costituzione con l’elezione diretta del presidente del Consiglio e l’indicazione in una sola scheda con deputati e senatori, così da stravolgere il cosiddetto vincolo di mandato. Obbligando l’eletto, anche di fronte a dissidi insanabili a scegliere di restare nel partito, nel gruppo parlamentare originario, senza possibilità di dissentire scegliendo liberamente ed in coscienza. Un presidente del Consiglio eletto direttamente metterebbe a tacere un Presidente della Repubblica eletto dalla politica. La forza data dal consenso è dirompente che poi con un premio di maggioranza del 55% dei seggi diventa blindato.
Parafrasando Francesco de Gregori in Bufalo Bill, “se cinque articoli vi sembran pochi” rispetto ai faraonici progetti di riforma presentati e poi saltati negli anni passati, in queste poche righe ci sono concentrati sconvolgimenti in grado di alterare equilibri che hanno garantito la vita e la prosperità pacifica di questa Repubblica.
La modifica dell’articolo 94, definita “norma antiribaltone”, prevede che in caso di crisi e di caduta del Governo, l’incarico per il tentativo di formazione di un nuovo esecutivo non spetterebbe più al Presidente della Repubblica, con la possibilità di accordare un tentativo anche a nuove forze non coinvolte in precedenza nella compagine governativa, ma ad un altro parlamentare dello stesso schieramento del presidente del consiglio eletto direttamente, probabilmente il secondo più votato, che presenterebbe una nuova composizione delle stesse forze e che se non avesse il favore del parlamento, condurrebbe solo a nuove elezioni.
Il problema è che questa forma elettorale è sbilanciata fortemente e non ha garanzie per la cosiddetta minoranza rappresentato oggi dal Presidente della Repubblica che diverrebbe un funzionario quasi notarile, buono per bollinare o meno gli atti di un governo libero da lacci e lacciuoli.
Sicuramente si direbbe addio ai cosiddetti governi tecnici, maledetti da molti ma a volte risultati vitali per garantire i passaggi in momenti particolari e difficili (pandemia docet).
Il problema, insomma, è che si andrebbe verso un antiparlamentarismo, si sdoganerebbero le decretazioni d’urgenza prese come mezzo ordinario, si enfatizzerebbero le differenze tra i membri della maggioranza aumentandone la litigiosità.
Tutto questo ovviamente non è segreto ma molto riservato è lo scopo finale di questo progetto: garantire un uomo forte, o, in questo caso, una donna forte, sola al comando. Una riedizione moderna e più accettabile di quanto accaduto tristemente un centinaio di anni orsono e che dilaniò l’Italia, portò la nostra nazione ad approvare le leggi razziste, la ridusse alla fame e la fece entrare in guerra. Questo andrebbe ricordato agli amichetti inquadrati, col braccio teso ed ululanti ad Acca Larenzia. La Meloni, in versione “a-fascista”, non è peggio della versione precedente quando si dichiarava apertamente “fascista”. Non è questione di lana caprina ma punto focale. Il dispotismo già manifestato, la ritrosia alle critiche, il rapporto con la poca stampa non schierata e lecchina, le invasioni barbariche che hanno occupato tutte le poltrone possibili ed immaginabili di tutti gli enti, le municipalizzate, gli uffici pubblici, stanno a dimostrare la marea nera che sta avvolgendo ed inzozzando tutto.
Per nostra fortuna la attuale Carta costituzionale, venne scritta blindando alcuni passaggi focali come questi e quindi appare più che lecito pensare che per mettere in piedi tutta questa baracca e per far piazza pulita del precedente sistema si dovrà ricorrere ad una serie di quesiti referendari che rendono la strada irta, sdrucciolevole e particolarmente in salita. Benedetti sempre siano i nostri Padri Costituenti, amen.