C’era una volta l’Italia del miracolo economico, della dignità ritrovata, dell’orgoglio di una nazione che si era rialzata dalle macerie della guerra. Quell’Italia sembra oggi un ricordo sbiadito, sostituita da un nuovo medioevo sociale dove il “cappello in mano” è tornato a essere la postura nazionale prediletta.

La metamorfosi è tanto sottile quanto profonda. Non vediamo più i mendicanti con il piattino per le elemosine agli angoli delle strade - o almeno, non solo quelli. La mendicità contemporanea italiana ha assunto forme più sofisticate, ma non per questo meno umilianti. Si manifesta nelle anticamere del potere, nelle trattative di corridoio, nelle concessioni elargite come favori regali.

I segnali sono ovunque. I balneari, un tempo imprenditori fieri, oggi supplicano di mantenere le loro concessioni come se fossero privilegi medievali. I tassisti, che dovrebbero essere protagonisti di un servizio pubblico moderno, si aggrappano a licenze come fossero pergamene nobiliari. Gli operatori turistici, in un paese che dovrebbe vivere di turismo con fierezza, si ritrovano a mendicare deroghe e sussidi.

La situazione assume contorni ancora più drammatici nel mondo del lavoro. I medici, depositari di una delle professioni più nobili, sono ridotti a vagare di pronto soccorso in pronto soccorso come mercenari medievali, vendendo le proprie prestazioni a cachet. I giovani professionisti, eredi di generazioni di eccellenza italiana, preferiscono la valigia alla questua, alimentando un esodo che impoverisce ulteriormente il tessuto sociale del paese.

Persino nel commercio, l’antica pratica del “comparaggio” - quella dei nipotini di Achille Lauro che consegnano prima una scarpa e poi l’altra - ritorna come un fantasma dal passato, simbolo di un sistema di dipendenza e favori che credevamo superato. Magari non è più una calzatura a fare la differenza, oggi quelle cinesi sono alla portata pressoché di tutti, ma certamente gli oggetti o i servigi sono comunque merce ma anche le sempiterne mazzette o come le regalie.

È una mendicità istituzionalizzata, quasi costituzionalizzata, che si nutre di una narrativa politica che guarda all'estero non per emularne i successi, ma per giustificare le proprie manchevolezze. Si cerca conforto nelle vittorie di Trump, nelle presunte sconfitte dei socialdemocratici tedeschi, nelle fragili tregue in territori di guerra, come se il declino altrui potesse nobilitare la nostra discesa.

Questa nuova forma di mendicità nazionale non è frutto del caso, ma il risultato di precise scelte politiche che hanno progressivamente eroso la dignità del lavoro, dell’impresa, della professionalità. Un governo che, invece di promuovere l’autonomia e l’iniziativa, sembra preferire sudditi riconoscenti a cittadini consapevoli. Anche i politici vengono scelti non per le loro capacità ma per la loro fedeltà al capo o, meglio, alla Capa.

La rassegnazione che pervade il paese non è quiete, è paralisi. Non è attesa, è rinuncia. Il mare in bonaccia che osserviamo non è pace, è l’immobilità di chi ha smesso di remare verso il futuro. E in questo scenario, la destra estrema al governo non rappresenta una soluzione, ma la cristallizzazione di un sistema che trasforma i diritti in concessioni e la cittadinanza in vassallaggio.

L’Italia dei mendicanti non è una condanna della storia, è una scelta politica. Una scelta che può - e deve - essere rovesciata prima che la dignità nazionale diventi solo un ricordo nei libri di storia.

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