Giocare con le parole è una competenza oramai non comune. Appare una delle azioni impossibili ad una grossa fetta della popolazione. Anche tra gli italiani più di una persona su tre non riuscirebbe nell’impresa.
Intanto, allora, capovolgiamo il senso del titolo di una canzone del 1984 di Antonello Venditti ed affermiamo: “ci vorrebbe un nemico”.
La costruzione della figura del “nemico” nelle società contemporanee sta assumendo caratteristiche simili in diversi contesti democratici. Negli Stati Uniti oggi e in Italia, già da qualche anno, si osserva una tendenza a identificare come “nemici” alcuni gruppi specifici della società.
Nel contesto statunitense, il giornalismo investigativo indipendente viene spesso dipinto come “nemico del popolo” quando pubblica inchieste critiche verso il potere. I migranti vengono frequentemente descritti come minaccia alla sicurezza nazionale e al tessuto sociale, nonostante i dati mostrino il loro contributo essenziale all’economia. Le sentenze della magistratura vengono sbeffeggiate, derise e strumentalizzate.
In Italia, si riscontra una dinamica parallela: chi esprime posizioni non allineate con la narrativa dominante viene spesso etichettato come antagonista del sistema. La querela temeraria è all’ordine del giorno. I migranti, poi, diventano il fulcro di un dibattito che tende a polarizzare l’opinione pubblica così da poter individuare ed attaccare altri nemici: i magistrati. Sia in Italia che negli USA, chi non è col governo viene etichettato quale comunista. Che si tratti di un giornalista o di un magistrato o di un politico, l’etichetta viene fabbricata ed appiccicata.
Questa costruzione del “nemico” serve spesso come strumento di distrazione dai problemi strutturali e dalle questioni socioeconomiche più complesse. La semplificazione della realtà in categorie di “amici” e “nemici” rischia di minare il pluralismo democratico e il dibattito costruttivo.
La sfida per le società democratiche contemporanee resta quella di preservare spazi di dialogo e confronto, resistendo alla tentazione di ridurre la complessità sociale a schematismi semplicistici che dividono la società in fazioni contrapposte.
Ma se il 35% degli italiani, fonte OCSE, rientra nella categoria degli analfabeti funzionali gravi, allora viene svelato l’arcano. Semplificare paga chi parla a quella fetta della popolazione. Negli USA quella percentuale è del 33% e questo spiega molto.
La soluzione sarebbe l’investimento nella istruzione, invece negli ultimi due anni abbiamo assistito ad un taglio del 10,4%. Gli ignoranti si comandano meglio, se poi sono anche poveri, allora, si comprano per un tozzo di pane. 8,5 milioni di individui rientra nella classifica della povertà relativa individuale che compone una costellazione di 2,8 milioni di famiglie di poveri.
Urgono misure tampone e languono politiche per la correzione di queste storture.